Indonesia, dopo il terremoto e lo tsunami anche l’eruzione di un vulcano: è emergenza assoluta


Dopo il terremoto e lo tsunami, che finora hanno restituito i cadaveri di 1.407 persone, l’isola indonesiana di Sulawesi è stata scossa questa mattina dall’eruzione del vulcano Soputan nella provincia del Nord. L’eruzione ha formato una colonna di fumo e cenere che ha raggiunto un’altezza di circa seimila metri. Le autorità hanno consigliato alla popolazione di evitare un’area fino a quattro chilometri intorno al vulcano, ma hanno fatto sapere che al momento non sono necessarie evacuazioni. I controllori del traffico aereo sono stati avvertiti dei rischi legati alle nubi di cenere.
Intanto prosegue la corsa contro il tempo per trovare altri sopravvissuti. Le autorità hanno fissato a venerdì – a una settimana esatta dalla calamità – il termine per le ricerche: dopo quella data le possibilità di trovare persone vive sotto le macerie è considerata vicina allo zero. La situazione – a cinque giorni dal doppio disastro di terremoto e tsunami – continua ad essere drammatica: scarseggiano i servizi essenziali e gli aiuti umanitari. Secondo l’Onu 200mila persone hanno bisogno di aiuti urgenti, e tra loro decine di migliaia di bambini. La crescente disperazione dei residenti è evidente: con 66 mila edifici crollati e intere aree non ancora raggiunte dai soccorritori, a Palu si moltiplicano i saccheggi dei negozi ancora in piedi, tra una crescente tensione tra la polizia e i residenti. Il maresciallo dall’aeronautica Hadi Tjahyanto ha comunicato che nella città sono stati inviati militari per sorvegliare infrastrutture, depositi di carburante, banche, il locale aeroporto ed impedire lo sciacallaggio.
Nella capitale provinciale, colpita sia dal sisma di magnitudo 7,5 sia dal maremoto, gli agenti ieri hanno sparato colpi in aria e gas lacrimogeni per cercare di disperdere una folla che assaltava un negozio. La polizia locale ha disposizioni precise: chiudere un occhio di fronte a chi cerca cibo e acqua, ma non permettere il saccheggio di altri prodotti. Il carburante in città è agli sgoccioli, la rete elettrica è ancora a singhiozzo, e l’azienda petrolifera nazionale Pertamina ha inviato navi-cisterna per i rifornimenti. Code di centinaia di metri sotto il sole cocente si formano per gli approvvigionamenti dei beni più necessari.
“Tutti hanno fame dopo diversi giorni senza mangiare”, ha detto in un’intervista in tv il capo dell’amministrazione della provincia di Donggala, un’area ancora largamente inesplorata dai soccorritori. “Dedichi attenzione a Donggala, signor Jokowi!”, si è visto gridare un residente – usando il soprannome del presidente indonesiano Joko Widodo – in un video di una rete locale. L’Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che nella zona 310mila persone sono state colpite dal disastro.
Da Ginevra, le Nazioni Unite esprimono frustrazione per il lento avanzamento dei soccorsi. “Ci sono ancora vaste zone delle aree più colpite che non sono state ancora completamente raggiunte, ma i soccorritori stanno lavorando duro, fanno quello che possono”, ha detto nella serata di martedì Jens Laerke, dell’Ufficio per gli Affari umanitari. Si stanno intanto scavando nuove fosse comuni, alcune capaci di contenere fino a un migliaio di corpi. E dal fango e le macerie iniziano a emergere anche storie drammatiche. Come quella di una sorta di oratorio accanto una chiesa, in un villaggio vicino Palu, da cui sono stati estratti 34 corpi di ragazzini che stavano facendo catechismo. E altri 52 risultano dispersi.
La cattiva gestione dell’emergenza da parte delle autorità indonesiane, che solo ieri hanno chiesto espressamente l’assistenza internazionale, esaspera i residenti. Intervistati dalle tv locali, in molti lamentano l’assenza di aiuti e la priorità data ai grandi edifici di Palu, come alcuni hotel crollati (in particolare il Roa-Roa, dove si ritiene che sotto le macerie siano sepolte 60 persone) e il principale centro commerciale. Tale frustrazione e la mancanza di viveri sono un problema anche per la sicurezza dei convogli umanitari, che vengono ormai scortati dall’esercito e dalla polizia dopo che alcuni di essi sono stati minacciati da uomini armati.

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