Il ricordo del Disastro del Vajont 57 anni dopo


Era il 9 ottobre del 1963 quando dalle pendici del monte Toc si staccò una frana che crollò sul bacino artificiale subito seguente, causando la morte di migliaia di persone. Le frazioni di Pirago, Rivalta, Villanova e Faè vennero letteralmente rase al suolo, con un numero di vittime tutt’oggi sconosciuto. Il disastro divenne noto alla storia come il Disastro del Vajont.

I fatti

Alle 22:39 del 9 ottobre 1963, si staccò dalla costa del Monte Toc una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra. In circa 20 secondi la frana arrivò a valle, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale. L’impatto con l’acqua generò tre onde: una si diresse verso l’alto, lambì le abitazioni di Casso, ricadde sulla frana e andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza; un’altra si diresse verso le sponde del lago e, attraverso un’azione di dilavamento delle stesse, distrusse alcune località nel comune di Erto e Casso, e la terza (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua) scavalcò il ciglio della diga, che rimase intatta ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont, e precipitò nella stretta valle sottostante.

I circa 25 milioni di metri cubi d’acqua che riuscirono a scavalcare l’opera raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti, che si riversarono sul settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono solo il municipio e le case poste a nord di esso) e di altri nuclei limitrofi, e la morte, nel complesso, di circa 2000 persone (i dati ufficiali parlano di 1917 vittime, ma non è possibile determinarne con certezza il numero). È stato stimato che l’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria fosse addirittura il doppio dell’intensità generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima, quindi la metà delle vittime uccise che si trovavano all’aperto fu smembrata e polverizzata, e di loro non si trovò nulla.

I pompieri partiti da Belluno, dopo aver ricevuto segnalazioni circa l’innalzamento del livello del Piave, non poterono raggiungere il luogo, poiché da un certo punto in poi la strada, provenendo da valle, era stata completamente divelta; Longarone fu raggiunta allora dai pompieri partiti da Pieve di Cadore, che furono i primi a rendersi conto di cosa fosse accaduto e poterlo comunicare. Alle ore 5:30 della mattina del 10 ottobre 1963 i primi militari dell’Esercito Italiano arrivarono sul luogo per portare soccorso e recuperare i morti. Tra i militari intervenuti vi erano soprattutto Alpini, alcuni dei quali appartenenti all’Arma del genio, che scavarono anche a mano per cercare i corpi dei dispersi. Questi trovarono anche alcune casseforti delle banche del paese, non più apribili con le normali chiavi in quanto molto danneggiate. Anche i Vigili del Fuoco provenienti da 46 Comandi Provinciali parteciparono in massa ai soccorsi, con un impiego di 850 uomini, tra Nuclei Sommozzatori, Terra ed Elicotteristi, e un grande numero di automezzi e attrezzature. Il Nucleo Sommozzatori di Genova, con 8 unità di personale, venne adibito, in particolare, nel bacino antistante la Diga di Busche, al dragaggio per ricercare salme e fustame di sostanze tossiche (61 fusti di cianuro), con successiva perlustrazione mediante immersione e finale rimozione dei fanghi a bacino prosciugato. Dei circa 2000 morti, sono stati recuperati e ricomposti sommariamente solo 1500 cadaveri, la metà dei quali non è mai stato possibile riconoscere.

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