Istat: diminuisce la popolazione in Italia, meno nascite nel 2020. Tasso di fecondità scende a 1,24 figlio per donna


Continua a diminuire la popolazione in Italia. Al 1° gennaio 2021 i residenti ammontano a 59 milioni 259mila, 384mila in meno su base annua con minimo di nascite e massimo di decessi

Ennesima riduzione delle nascite anche nel 2020. Negli ultimi 12 anni si è passati da un picco relativo di 577 mila nati agli attuali 404 mila, il 30% in meno. Il tasso di fecondità è sceso a 1,24 figlio per donna, da 1,27 del 2019 (era 1,40 nel 2008). “E’ significativo osservare – spiega l’Istat – come la variazione sul 2019 relativa al mese di dicembre risulti, tra tutte, quella massima (circa 3.500 nascite in meno), a sostegno dell’ipotesi secondo cui, in aggiunta al dato tendenziale, anche la pandemia abbia iniziato ad esercitare un effetto riduttivo sulla natalità”.

Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha prodotto effetti non soltanto, per quanto prevalentemente, sulla mortalità ma anche sulla mobilità residenziale interna e con i Paesi esteri, arrivando a incidere persino sui comportamenti riproduttivi (nell’ultimo mese dell’anno) e nuziali. Ne scaturisce un quadro globale, già di per sé fortemente squilibrato da dinamiche demografiche deboli sul versante del ricambio dellapopolazione, nel quale le stesse problematiche risultano accentuate e moltiplicate.

Alla luce di dati molto consolidati che coprono tutto il 2020 ma che per il momento sono da considerarsi provvisori le nascite risultano pari a 404mila mentre i decessi raggiungono il livello eccezionale di 746mila. Ne consegue una dinamica naturale (nascite-decessi) negativa nella misura di 342mila unità. Gli effetti del lockdown hanno poi determinato inevitabili ripercussioni sul versante dei trasferimenti di residenza. Le iscrizioni dall’estero sono state 221mila e le cancellazioni 142mila. Ne deriva un saldo migratorio con l’estero positivo per 79mila unità, il valore più basso degli anni 2000.

Popolazione in calo in quasi tutte le regioni

Popolazione in calo in quasi tutte le regioni con l’eccezione del Trentino-Alto Adige, dove si registra una variazione annuale della popolazione pari a +0,4 per mille, tutte le regioni sono interessate da un decremento demografico. Il fenomeno colpisce maggiormente il Mezzogiorno (-7 per mille) rispetto al Centro (-6,4) e al Nord (-6,1). Molise (-13,2) e Basilicata (-10,3) sono le regioni più colpite; tra quelle del Nord spiccano Piemonte (-8,8), Valle d’Aosta (-9,1) e soprattutto Liguria (-9,9). Scendendo di un livello nell’analisi territoriale, la provincia di Isernia è quella che evidenzia la situazione maggiormente critica, per via di un tasso di variazione che in un anno le sottrae circa l’1,5% della popolazione. Sono comunque numerose, e concentrate nel Nord-ovest, le province che nel 2020 perdono almeno l’1% della popolazione. In particolare, le province di Vercelli, Asti, Alessandria e Biella in Piemonte; le province di Savona e Genova in Liguria, quelle di Pavia e Cremona in Lombardia.

Nel Centro del Paese soltanto la provincia di Macerata si trova nelle medesime condizioni mentre nel Sud, oltre alla citata Isernia, figurano anche le province di Benevento, Avellino, Campobasso, Potenza e Crotone. Nelle Isole, infine, il decremento demografico interessa le province di Caltanissetta, Enna, Nuoro e Oristano. La provincia di Bolzano (+2 per mille), al contrario, è l’unica a vantare un saldo demografico positivo.

Persi in media oltre 14 mesi di sopravvivenza

Per effetto del forte aumento del rischio di mortalità, specie in alcune aree e per alcune fasce d’età, che ha dato luogo a 746mila decessi (il 18% in più di quelli rilevati nel 2019), la sopravvivenza media nel corso del 2020 appare in decisa contrazione. La speranza di vita alla nascita, senza distinzione di genere, scende a 82 anni, ben 1,2 anni sotto il livello del 2019. Per osservare un valore analogo occorre risalire al 2012. Gli uomini sono più penalizzati: la loro speranza di vita alla nascita scende a 79,7 anni,
ossia 1,4 anni in meno dell’anno precedente, mentre per le donne si attesta a 84,4 anni, un anno di sopravvivenza in meno. A 65 anni la speranza di vita scende a 19,9 anni (18,2 per gli uomini, 21,6 per le donne). La variazione annuale è sostanzialmente uguale a quella riscontrata nella speranza di vita alla nascita ma ha un impatto relativo più importante, stante l’esiguità della vita media residua sul quale un individuo può contare al 65° compleanno.

Tutte le regioni, nessuna esclusa, subiscono un abbassamento dei livelli di sopravvivenza. Tra gli uomini la riduzione della speranza di vita alla nascita varia da un minimo di 0,5 anni (vale a dire 6 mesi di vita media in meno) riscontrato in Calabria, a un massimo di ben 2,6 anni in Lombardia. Le regioni del Centro-sud registrano perdite inferiori, poiché meno colpite dagli effetti della pandemia ma comunque importanti. In Abruzzo, Puglia e Campania, la riduzione di sopravvivenza per gli uomini è di oltre un anno rispetto al 2019. Ma è soprattutto il Nord a pagare il prezzo più alto: oltre che nella già citata Lombardia, gli uomini registrano riduzioni rilevanti anche in Piemonte (-1,7 anni), Valle d’Aosta (-1,7), Liguria (-1,6), Trentino-Alto Adige (-1,6) ed Emilia-Romagna (-1,5).

Lo schema si ripete tra le donne, anche se a un livello differente. Nelle regioni del Centro-sud si riscontrano variazioni più contenute, minime in Calabria e Basilicata (-0,3 anni) così come nel Lazio e in Campania (-0,4). Si tratta comunque di perdite importanti, dell’ordine dei 3-5 mesi di speranza di vita in meno, ma di certo non paragonabili ai 2 anni pieni persi dalle donne in Lombardia o ai 2,3 anni persi in Valle d’Aosta, dove si riscontra la condizione più critica.
Su base provinciale la correlazione tra la mappa della diffusione della pandemia e quella della sopravvivenza persa in base ad anni vissuti è ancora più netta che su scala regionale. Emerge la specificità di alcune aree del Paese, più colpite dalla pandemia nella sua fase di esplosione iniziale. Tra queste, la provincia di Bergamo, dove per gli uomini la speranza di vita alla nascita è più bassa di 4,3 anni rispetto al 2019, e le province di Cremona e Lodi, entrambe con 4,5 anni in meno. In queste tre specifiche realtà sono ingenti anche le variazioni riscontrate tra le donne: -3,2 anni per Bergamo e -2,9 anni per Cremona e Lodi. Dati, questi ultimi, che arretrano le lancette del tempo al 2003.

Altra realtà fuori dai confini lombardi, ma strettamente contigua, è quella della provincia di Piacenza, dove si registrano riduzioni della speranza di vita alla nascita nella misura di 3,8 e 2,8 anni, rispettivamente per uomini e donne. Oltre a questi casi più eclatanti, il quadro provinciale presenta molte situazioni nelle quali la perdita di sopravvivenza arriva a superare i due anni. Per gli uomini si tratta delle province di Vercelli, Alessandria e Biella in Piemonte, delle restanti province lombarde ad eccezione di Monza (che si ferma a -1,7 anni) e delle province di Pordenone, Parma e Pesaro-Urbino. Nel Mezzogiorno le sole province con un calo della speranza di vita superiore ai due anni sono Foggia ed Enna. Per le donne, data la relativamente minore aggressività della pandemia, sono molte meno le province con una simile portata di riduzione. Tra queste, oltre a quelle già menzionate, rientrano quelle lombarde di Brescia e Lodi. La pandemia causa almeno 99mila decessi in più di quanto atteso.

Il 2020 segna l’ennesima riduzione delle nascite che sembra non aver fine. Nel volgere di 12 anni si è passati da un picco relativo di 577mila nati agli attuali 404mila, ben il 30% in meno. Alla contrazione dei progetti riproduttivi, con un tasso di fecondità totale sceso lo scorso anno a 1,24 figli per donna da 1,27 del 2019 (era 1,40 nel 2008), si accompagnano anche deficit dimensionali e strutturali della popolazione femminile in età feconda, che si riduce nel tempo e ha un’età media in aumento. Se si fosse procreato con la stessa intensità e con lo stesso calendario di fecondità del 2019, quando si registrarono 420mila nascite, nel 2020 se ne sarebbero osservate circa 413mila, anziché 404mila.

Dunque, il solo effetto strutturale legato al processo di invecchiamento della popolazione femminile in età feconda porta una riduzione, a parità di condizioni, di almeno 7mila nascite. L’ulteriore calo di 9 mila sul 2019 è invece frutto della reale contrazione dei livelli riproduttivi espressi. Su queste dinamiche, che da anni vanno ripetendosi costituendo la questione di punta della demografia nazionale, gli effetti della pandemia hanno potuto manifestarsi, nel caso, soltanto con riferimento al mese di dicembre 2020. Infatti, occorre considerare che l’impatto psicologico di Covid-19, così come le restrizioni adottate, hanno avuto un impatto sulle scelte riproduttive soltanto a partire da marzo. Ciò è quanto lascia supporre anche l’andamento delle nascite per singolo mese del 2020, messo a confronto con il 2019. In particolare, a eccezione di febbraio, i nati mensili nel 2020 sono sempre sotto quelli del 2019, a conferma del prosieguo della tendenziale riduzione avviata negli ultimi anni.

Ma è significativo osservare come la variazione sul 2019 relativa al mese di dicembre risulti, tra tutte, quella massima (circa 3.500 nascite in meno), a sostegno dell’ipotesi secondo cui, in aggiunta al dato tendenziale, anche la pandemia abbia iniziato ad esercitare un effetto riduttivo sulla natalità. Un’ipotesi che sembra trovare conferma nei dati provvisori relativi a gennaio 2021, in cui si registra un calo delle nascite superiore alle 5mila unità rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. In attesa di accertare gli ulteriori sviluppi sul fronte della natalità, un effetto indiretto ma immediato della pandemia si è già verificato riguardo ai processi di formazione delle coppie. Secondo i primi dati provvisori, nel 2020 sono stati celebrati circa 97mila matrimoni, il 48% in meno dell’anno precedente, per un tasso di nuzialità che crolla dal 3,1 per mille all’1,6 per mille. Considerando quanto ancora oggi vi sia uno stretto legame tra matrimonio e le intenzioni riproduttive nel breve periodo, non vi è dubbio che anche questo fattore eserciterà una spinta negativa sulle nascite del 2021 e forse anche in seguito. Con un numero medio di figli per donna analogo a quello del 2003, che tuttavia si collocava in un momento storico di ascesa della fecondità, avere figli rappresenta sempre più una scelta posticipata e, in quanto tale, ridotta rispetto a quanti idealmente se ne desiderano. L’età media al parto ha raggiunto i 32,2 anni (+0,1 sul 2019), un parametro che segna regolari incrementi da molto tempo (30,8 nel 2003 e 31,1 nel 2008). In questo quadro, oggi è del tutto usuale che la fecondità espressa dalle donne 35- 39enni superi quella delle 25-29enni o che le ultraquarantenni stiano progressivamente avvicinandosi ai livelli delle giovani under25.

Verso un solo figlio per coppia

La riduzione della natalità interessa tutte le aree del Paese, da Nord a Sud, salvo rare e non significative eccezioni. Sul piano regionale le nascite, che su scala nazionale risultano inferiori del 3,8% sul 2019, si riducono dell’11,2% in Molise, del 7,8% in Valle d’Aosta, del 6,9% in Sardegna. Tra le province, a riprova di un quadro generale piuttosto critico, sono soltanto 11 (su 107) quelle in cui si rileva un incremento delle nascite: Verbano-Cusio Ossola, Imperia, Belluno, Gorizia, Trieste, Grosseto, Fermo,
Caserta, Brindisi, Vibo Valentia e Sud Sardegna.

La fecondità si mantiene più elevata nel Nord del Paese, con 1,27 figli per donna ma in calo rispetto a 1,31 del 2019 (e a 1,44 del 2008). Nel Mezzogiorno scende da 1,26 a 1,23 (1,34 nel 2008) mentre al Centro passa da 1,19 a 1,17 (1,39 nel 2008). La regione più prolifica è il Trentino-Alto Adige con 1,52 figli per donna, in calo da 1,57 del 2019. Sotto il livello di 1,2 figli per donna si trovano soltanto regioni del Centro-sud. Una situazione decisamente sfavorevole è nelle aree a maggiore declino demografico, che, al contrario, avrebbero grande necessità di invertire le tendenze in corso. In Umbria, Abruzzo, Molise e Basilicata si è molto più prossimi al livello di rimpiazzo della sola madre (cioè a un figlio per donna) che non, idealmente, a quello della coppia di genitori (due figli). In Sardegna (0,95 figli per donna), per il secondo anno consecutivo non si coglie nemmeno l’obiettivo minimo di rimpiazzare almeno un genitore. (IL RAPPORTO COMPLETO)