Esports: il giro d’affari degli sport elettronici


Gli amanti dei videogiochi ne sentono ormai parlare in continuazione. Gli Esports, gli sport elettronici stanno conquistando ormai l’opinione pubblica e non è un mistero che la dimensione videoludica finirà col coinvolgere persino le prossime Olimpiadi. I videogame sono arrivati ad un livello agonistico, difficilmente i gamer impugnano il gamepad per giocare da soli contro il computer e le modalità multiplayer online stanno alimentando da anni un vero e proprio mercato fatto di shop virtuali e DLC che arricchiscono il più possibile l’esperienza di gioco. Si pensi a un titolo calcistico, dove avere un attaccante particolarmente rapido e abile nel tiro può incidere pesantemente sul risultato di una partita. Insomma, la realtà degli Esports non può più essere ignorata, anche perché il giro d’affari sta diventando seriamente importante. Al momento in Italia l’indotto generato dagli Esports è di 45 milioni di Euro. Un business in piena regola.

Tra competizioni ufficiali, sponsorizzazioni, diritti e merchandising, a livello globale gli Esports vantavano nel 2020 un fatturato di quasi 950 milioni, ma è bastato attendere un solo anno per raggiungere e superare il tetto del miliardo. Più di 200 milioni le persone che alimentano il fenomeno dall’esterno, limitandosi magari ad assistere ai grandi tornei o a sostenere i player professionisti, ad esempio. Ogni giorno mezzo milione di appassionati in tutto il mondo finisce col seguire almeno un evento riconducibile agli Esports. Dati e numeri destinati ad aumentare vertiginosamente nel tempo. Nel 2022 potrebbero essere già 4 i miliardi di fatturato derivanti da questo fenomeno.

Anche in Italia c’è chi ha fatto dei videogame il proprio mestiere, ottenendo bei risultati a livello internazionale, tanto da attirare l’attenzione di grandi società. I migliori gamer sono quelli che compongono tra loro veri e propri team pronti a sfidare i colleghi in tutto il globo. E così, le software house gongolano e continuano a pubblicare sequel dei giochi più famosi come “Call of Duty”, particolarmente ricercati nel competitivo. Va da sé che alcuni generi di videogiochi non si possono sposare con la filosofia degli Esports. Niente platform alla Super Mario, dunque, ma al giorno d’oggi anche i personaggi meno avvezzi a sparatutto et similia vantano spinoff che possono risvegliare la voglia di gareggiare dei giocatori.

Gli stessi controller si sono talmente evoluti a causa delle crescenti combinazioni dei tasti che persino la croce direzionale, inventata decine di anni fa dalla Nintendo, sta lasciando il tempo che trova. Oggi viene impiegata perlopiù la levetta analogica per guidare virtualmente calciatori, guerriglieri o idraulici baffuti. In altri giochi digitali come quelli dei casinò nella variante live online bastano i semplici comandi sul touchscreen per gestire svariate azioni. Proprio il web ha ingigantito la dimensione dei videogame nel terzo millennio, estremizzando il concetto di connettività tra i giocatori, che ora vogliono divertirsi prevalentemente tra loro. Che si tratti di una partita a poker o di una caccia all’uomo su “Fortnite”.

Affermare che le piattaforme di condivisione video come Youtube e Twitch non abbiano contribuito alla formazione degli Esports significherebbe negare l’evidenza. Molti gamer sono diventati professionisti dopo essersi trasformati innanzitutto in star e influencer su internet, mostrando i gameplay delle proprie partite e interagendo con gli utenti più dubbiosi sui giochi più recenti. World Cyber Games, Electronic Sports World Cup, DreamHack. E adesso le Olimpiadi. Ah, se quelle sedie sgargianti, variopinte e iperfuturistiche da gaming potessero parlare.